Ai sensi della vigente normativa, il deposito temporaneo consiste nel raggruppamento di rifiuti effettuato prima della raccolta nel luogo in cui gli stessi sono prodotti e costituisce un’ipotesi derogatoria ed eccezionale rispetto alle forme di stoccaggio rifiuti (deposito preliminare e messa in riserva). Dall’esame dell’art. 183, lett. bb), D.L.vo 152/06 emerge la facoltà rimessa al produttore di scegliere tra l’invio dei rifiuti a recupero o smaltimento con cadenza almeno trimestrale (rispettivamente per i rifiuti pericolosi e quelli non pericolosi), ovvero l’invio connesso al raggiungimento dei 30 metri cubi dei rifiuti in deposito, di cui al massimo di rifiuti pericolosi. Pertanto, il produttore può scegliere se avviare i rifiuti allo smaltimento o al recupero seguendo il criterio temporale ovvero seguendo il criterio del quantitativo in deposito raggiunto.
Tutto ciò premesso in ordine all’istituto giuridico del deposito temporaneo, sotto il profilo sanzionatorio si rammenta di fare particolare attenzione alle prescrizioni, in quanto il mancato rispetto delle condizioni normative comporta il verificarsi della fattispecie di gestione non autorizzata di rifiuti ex art. 256 D.L.vo 152/20061. In argomento si segnala quanto stabilito dalla sentenza n. 49911 del 30 dicembre 2009 della Cassazione Penale, secondo la quale se nel deposito temporaneo manca anche solo una delle prescrizioni di cui all’art. 183 (lett. bb), il deposito deve essere considerato deposito preliminare, se il collocamento di rifiuti è prodromico ad una operazione di smaltimento (che, in assenza di autorizzazione, è sanzionata penalmente dall’art. 256); messa in riserva, se il materiale è in attesa di una operazione di recupero, che essendo una forma di gestione, richiede il titolo autorizzativo (la cui carenza integra gli estremi del reato previsto dall’art. 256); deposito incontrollato (art. 192) o abbandono quando i rifiuti non sono destinati ad operazioni di smaltimento o recupero. Quanto, poi, il fenomeno di abbandono di rifiuti è reiterato nel tempo e rilevante in termini spaziali e quantitativi, il fenomeno può essere qualificato come discarica abusiva.
Per comprendere se la scelta del criterio volumetrico / temporale sia obbligatoria, si segnala nell’ambito della riforma operata dal D.L.vo 4/2008 era stato inizialmente ipotizzato di indicare in maniera obbligatoria – all’atto della registrazione del rifiuto – l’opzione scelta (criterio volumetrico o criterio temporale); ma quest’ipotesi iniziale non è stata riconfermata, sicché ad oggi bisogna necessariamente indicare nel registro C/S[2] la quantità e la tipologia di rifiuti in deposito temporaneo, ma non la modalità di gestione. Il fatto che in alcuni casi, poi, la scelta tra i due criteri non sia riportata sul registro[3] ma su procedure interne aziendali può avvalorare il fatto che la medesima spetta al produttore e che deve essere evidente in caso di controllo: la scelta, del resto, può essere effettuata in qualsiasi momento.
Anche qualora sia stato verificato che in alcuni casi, in passato, i limiti temporali sono stati sforati, è importante verificare che almeno quelli volumetrici siano stati rispettati – previo rispetto di tutte le altre condizioni stabilite dalla norma. Al riguardo Cass. III Pen., con la sentenza n. 16988 dell’8 maggio 2012 ha precisato che a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 183, lett. m) D.L.vo 152/2006 (v. ora art. 183, lett. bb), il produttore può decidere di conservare i rifiuti in deposito per tre mesi in qualsiasi quantità, prima di avviarli allo smaltimento o al recupero, privilegiando così il limite temporale, oppure può scegliere di conservare i rifiuti in deposito per un anno, purché la quantità non raggiunga i venti metri cubi (per effetto delle modifiche apportate dal D.L.vo n. 205/2010 il limite è stato elevato a trenta metri cubi), in applicazione dei limite quantitativo. Pertanto, per qualificare come irregolare tale deposito è necessario appurare che entrambe tali condizioni non siano state rispettate.
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